Cercare una strada

Esce oggi questo piccolo libro, 128 pagine in tutto, per me molto speciale, pieno di cose che non ho mai fatto prima, come scrivere racconti e tentare esercizi di Botanica letteraria. Sono uscita insomma dalla mia comfort zone: ne sono un po’ spaventata e un po’ fiera.

C’è un cedro millenario, protagonista eponimo. Ci sono piccoli umani che si affannano, a volte con successo, altre meno, le loro vite intrecciate a quella di un maestoso essere vivente che abita il tempo altrimenti da noi.

Il nostro tempo nel frattempo si è complicato. Il riscaldamento globale è il problema dei problemi. Nel libro c’è anche questo. E c’è il desiderio di cercare una strada, una via d’uscita.

Ho riscritto La masnà

Ho riscritto La masnà. Non i personaggi o la trama: i tempi verbali. Un lavoraccio. Ma il fatto è che, rileggendo il romanzo a undici anni dall’uscita, ho avuto la sensazione che la complessità di cui mi faccio vanto – La masnà è un romanzo complesso che affronta a muso duro un tema complesso come la relazione tra le generazioni in un mondo complesso – mi sono accorta, dicevo, che la complessità a tratti esplodeva in confusione, e ho cercato di porre rimedio. Lavorando sui tempi verbali, appunto. Questo fanno gli scrittori, lavorano con le parole, le figure retoriche, il ritmo e anche i tempi verbali.

Ho anche riconsiderato il dialetto. Sia benedetto il dialetto, intendiamoci, lingua del cuore, dei visceri, dell’infanzia, carne e sangue. Ma, rileggendo, mi sono accorta che, qua e là, il monferrino stretto emergeva dal fluire del discorso come escrescenza spuria, effusione incontrollata, traboccare di un sentire solo mio. E la letteratura, io credo, è sì espressione di sé, ma è anche e soprattutto comunicazione. Quindi nella nuova masnà c’è ancora il dialetto, ma solo dove serve a capire quel che sta succedendo, la relazione tra i personaggi, il loro modo di stare al mondo.

Ora, alla vecchia masnà io devo moltissimo. Per le persone che ci hanno creduto, e lavorato, portando la prima volta questo libro in libreria provo gratitudine sconfinata. E devo moltissimo proprio al romanzo in sé. Scrivendo il primo capitolo, la notte di nozze di Emma e Genio, ho capito qual è il mio talento (in senso evangelico), il mio Daimon, la mia strada: raccontare storie. Una cosa gigantesca, dopo una vita di ardente inconsapevolezza, direbbe il poeta, e disordinati e disastrosi tentativi di trovarla, la strada. Quindi grazie, masnà.

Pensavo anche, all’epoca, con questo romanzo ho imparato a scrivere, e mi sembrava anche di avere buone ragioni per pensarlo, e ovviamente sbagliavo. Solo riscrivendolo, cioè lavorando sulla stessa storia, non su altro, ho imparato davvero che non si finisce di imparare a scrivere. Che scrivere è processo e gli anni influenzano la tua percezione di ciò che funziona o non funziona nella tua scrittura. Che la percezione di ciò che è possibile fare con le parole evolve con te, ingloba quello che hai scritto dopo, il tempo che stai vivendo, si arricchisce, si definisce. E questa, per una che tende troppo a guardare indietro, è una sensazione bellissima e piena di futuro. Bellissima perché piena di futuro.

La nuova masnà esce il 18 aprile negli Oscar Mondadori. Alla squadra che ci ha lavorato con l’entusiasmo di una prima edizione, tutto il mio affetto.

Da tutto questo gran lavorare e rilavorare è venuto fuori un buon libro, credo. Mi direte, se vi va. E, se vi va, potete già prenotarlo sulla piattaforma grande, su quelle piccole o, meglio, presso la vostra libreria di fiducia.

Il bello della gita comincia immaginandola

Il mio contributo allo speciale “Gite d’autore” sul quotidiano Il secolo XIX dell’8 aprile 2023.

Se il tempo tiene, a Pasquetta salgo alle Capanne di Marcarolo. Da Ovada si prende per Lerma, poi Mornese ed ecco che sei nel parco. Da Campo Ligure invece si va dritti sulla montagna. E siccome il bello della gita comincia immaginandola, adesso smetto di lavorare al computer e immagino. Sono giorni, questi, di primavera potente, di primule che incendiano il sottobosco, di linfa che, dalle radici, risale il tronco dei castagni a gonfiare nuove foglie e io, per Pasquetta, immagino zaino e scarponcini. Conosco le Capanne, ci vado spesso in questa stagione oppure d’estate, quando il caldo toglie il fiato e invece lassù si respira. Le conosco e quindi immagino preciso. Non solo castagni, non solo mammelloni erbosi buoni per farci merenda, anche orchidee selvatiche: il parco ne ha di magnifiche. E farfalle: il parco ne ha di uniche al mondo. E il Biancone, rapace simbolo dell’area protetta, nell’azzurro di smalto. Immagino tutto questo, e sentieri che ho percorso, puliti, ben segnalati, e la vista dalla cima del monte Tobbio, nostra montagna sacra. Quel che proprio non riesco a immaginare, con un sole così, con l’aria che sa di fiori, è il più grande eccidio di partigiani della storia nazionale.

I fatti: settimana santa del 1944, intorno al monte Tobbio un gigantesco rastrellamento. Uomini e cani, mezzi motorizzati, la cicogna che volteggia a bassa quota segnalando la presenza di ribelli in fuga. Difficile, in questo silenzio di vento e farfalle, immaginare la violenza, la cattura, gli ordini in tedesco, i gruppi di cinque davanti alla grande mitragliatrice manovrata da soldati italiani. Non tedeschi: italiani. Difficile immaginarli, i ragazzi della Benedicta, mentre cadono come mosche, a riempire una fossa comune che presto di mosche si ricopre. Difficile, impossibile. Eppure, ogni volta che salgo alle Capanne, allungo di un niente la strada e un passo al sacrario lo faccio. Mi sforzo di guardarlo in faccia, l’inimmaginabile. 

La vita dove nessuno la vede

“Pioniere” l’hanno intitolata. A Genova una mostra in piazza De Ferrari presenta volti famosi e persone comuni. Il mio contributo per Il secolo XIX (7 marzo 2023).

Risalendo a ritroso il sentiero dell’etimologia, scopro che la parola “pioniere”, francesismo, ha tutto un suo significato di guerra e fatica. Un migliaio di anni fa “pionnier” indicava infatti il fante, il soldato che va a piedi, etimo latino identico all’italiano “pedone”. Anche lui, il pedone delle origini, non un semplice camminatore, ma un uomo in armi e con un compito definito: costruire trincee, ponti e camminamenti, disboscare, sbadilare, tirare su baracche e rifugi aprendo la strada al resto della truppa. Così il vocabolario. Quanto alla parola “pioniera”, il dizionario liquida la questione alla svelta. La cosa non stupisce trattandosi, la femmina, di accidente della sostanza, come direbbero i filosofi antichi: esiste il pioniere, maschile (sostanza), e di certo esisterà da qualche parte anche la femmina, ma è un “di cui”, un caso particolare, abbreviabile infatti in “f. –a”. Pionier-a. E tanto basta.

Veramente non basta, ma via, non mi va di sprecare queste poche righe polemizzando contro l’impostazione maschilista dei vocabolari. Faccenda di cui altre si stanno già occupando più autorevolmente e che, a dirla tutta, poco mi appassiona. Mi appassionano loro, invece, le pioniere. Femminile e plurale.

Mi guardano dalle gigantografie. Sono atlete, ricamatrici, puericultrici, sarte, bottegaie, attiviste che l’archivio Francesco Leoni restituisce alla collettività, al discorso pubblico cioè, nei giorni intorno all’8 marzo. A vederle così tutte insieme, donne famose e donne comuni, ho la sensazione che la piazza di allarghi e si riempia. Operaie, insegnanti, attrici, edicolanti. “Dove eravate finite?” domando. “Dove vi avevano nascoste?” E anche: “Possibile che ci voglia l’8 marzo perché finalmente ci si accorga di voi?”

Le più, in foto sorridono. Ma siccome l’etimologia non mente, dietro i sorrisi, oltre il bianco e nero che le fa eleganti e lontane, avverto il picchiare duro della battaglia.

Battaglia di ieri, certo, ma anche di oggi. La stessa di chi, in questo presente accelerato, assume su di sé quel ruolo pugnace di apripista che, con buona pace dei compilatori di dizionari, sta tanto nella parola “pioniere” quanto nella parola “pioniera”.

È battaglia quando l’astronauta si sente domandare chi si occuperà della prole mentre lei fluttuerà nello spazio, e la stessa domanda mai si rivolgerebbe a un collega maschio. È battaglia quando, ad un traguardo raggiunto, una medaglia, un primato, le donne perdono il cognome e la comunicazione le depotenzia a nome di battesimo. È battaglia ogni volta che scorriamo l’albo d’oro dei principali riconoscimenti scientifici e letterari e l’imbarazzante sproporzione tra maschi e femmine ha la durezza di una rimozione da indagare con gli strumenti della psicanalisi. Un’autentica follia, insomma. Chi si ricorda di Rosalind Franklin che, negli stessi anni delle foto che sto guardando, diede un contributo essenziale alla scoperta del DNA, ma i meriti e il Nobel andarono ai due maschi Watson e Crick?

Aveva talento, Rosalind Franklin. Ce l’hanno tutti i pionieri e le pioniere, e parlando di talenti mi viene in mente la parabola, per me la più dura del Vangelo. Al servo che, invece di farlo fruttare, ha seppellito il suo talento, il padrone pronostica “pianto e stridor di denti”, cioè l’inferno in Terra. Ecco, mi dico, c’è un aspetto dell’essere pioniere, un tratto mite e accogliente che proprio con questa idea di talento ha a che fare.

Per spiegarmi torno al dizionario. Esistono, dice, le “piante pioniere”. Organismi viventi che colonizzano luoghi inabitabili e li trasformano in ambienti ospitali per le altre specie vegetali. Si diffondono dove non cresce nulla, prendono possesso di frane, colate laviche, rocce. S’infiltrano nelle fessure, si aggrappano con forza, resistono al vento, al gelo, combattono e convertono la sabbia in confortevole terriccio, e così dietro di loro cominciano ad arrivare fiori, arbusti, piante d’alto fusto e animali, e perfino l’essere umano. Le piante pioniere allargano lo spazio vitale, insomma, e facendolo per sé lo fanno per tutti. Così vedo queste donne pioniere, di ieri e di oggi. Donne che immaginano vita dove nessuno la vede, oltre gli steccati del patriarcato, e immaginandola per sé la mostrano a tutti. E a tutti parlano, uomini e donne, indicando la strada.  Cerca il tuo talento, dicono, non seppellirlo, abbi il coraggio di metterlo a frutto. Dimentica l’inferno, che qui c’è posto per tutti. Qui si può vivere, tutti, meglio.