Questo mio contributo è apparso sul quotidiano Il secolo XIX il 26 maggio 2021.
Lo ammetto, quando sento la notizia penso solo all’unico, piccolo sopravvissuto, Etian Biran. L’enormità della sua solitudine mi toglie il fiato. Il termine “intubato”, che il tg continua a ripetere, mi disturba. In pandemia è come uno sciame di cattivi pensieri, e allora lo scaccio. Provo a concentrarmi sul resto, le vittime, le parole dei soccorritori, la macchina degli accertamenti, ma faccio fatica. Il bambino sta lottando, nella mia testa c’è spazio solo per lui, di lui dobbiamo occuparci, penso. E quando passa la foto della famiglia Biran, i due ragazzi che lo hanno messo al mondo, Etian, e anche il fratellino, chiudo gli occhi. Così giovani, penso, noi che i figli li facciamo tardi oppure mai. Tanta vita mi sgomenta, tanta fiducia nel futuro, e dentro di me ringrazio che, nel pozzo nero di un pietoso sonno farmacologico, Etian quelle immagini non possa vederle. Che poi chissà, magari sogna, e allora cosa sogna? Ma anche questo pensiero – incerto, angoscioso – lo scaccio. Voglio solo quiete, anche se indotta, pace per Etian.
Forse per questo, quando alla fine del secondo giorno il portavoce dell’ospedale parla ai giornalisti di accompagnare il bambino in un “cauto risveglio”, il mio primo pensiero è: “No”. Poi correggo il tiro: “Non ancora” mi dico. Ma quando, allora? Quand’è il momento giusto? Il portavoce usa parole da medico, tecnicismi precisi e rassicuranti: “risonanza magnetica”, “tronco encefalico”, “stabilità emodinamica”. Come se dicesse che sono ossa, muscoli e arterie a stabilire che è ora, che il corpo è pronto. “Cautela” aggiunge però. Lo ripete. “Cautela” nel riportare Etian al “mondo reale”. Dice proprio così, “mondo reale”, quasi non fossero veri l’ospedale, l’ossigeno, le medicazioni. I giornalisti incalzano, vogliono un titolo che sintetizzi la situazione e il titolo è “cauto ottimismo”. Ma a me resta in testa solo quel “mondo reale”. La meno tecnica della espressioni. La più feroce. E anche se il bollettino medico è incoraggiante, e anche se Etian, come dice il tg, in ebraico vuol dire “forza”, il mio primo istinto è tenerlo lontano dal mondo reale, Etian, ancora per un po’.
Il fatto è che il mondo reale non risparmia nessuno, neanche i ragazzini, che i lutti poi li portano addosso, a scuola per esempio, ed è lì che ogni tanto incrociano la mia strada. Chi smette di venire a lezione e chi fa di tutto per non tornare mai a casa. Chi passa un anno intero senza sorridere e chi cova rancore monosillabico, rabbioso. Il mondo reale può essere spietato. Per questo desidero pace per Etian, solo un altro po’.
Ma in questo mio discorrere di protezione c’è qualcosa che non mi convince del tutto, perché di un piccolo corpo vivo parliamo, e di vita da vivere. Quante volte l’ho visto succedere? Quante volte ho visto ragazzi trovare la forza di tornare tra i banchi e ragazze ricominciare a parlare e perfino a sorridere? Il mondo reale sarà spietato ma la vita è potente.
Forse il mio primo istinto – aspettare, aspettare ancora – viene da altro e quelli a cui serve tempo siamo noi. Non tempo: coraggio. Noi adulti. Noi che insegniamo che non si devono dire le bugie e quindi a Etian dovremo dire la verità. Trovare le parole giuste per raccontargli la più nera delle favole. A lui e a tutti i bambini che guardano il tg in questi giorni bui. Noi che abbiamo le risposte, dobbiamo averle, almeno quelle che servono a un bambino di cinque anni, quando l’universo è tutto un “perché”. Anche per questo faremo indagini, apriremo istruttorie, commissioneremo perizie e proveremo a rispondere a tutte le domande. L’avete vista al tg l’espressione determinata del magistrato inquirente? È la stessa nostra. Solo alla domanda più misteriosa e dolente ci toccherà chinare il capo e restare in silenzio: “Perché io? Perché proprio a me?”
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