Natale non non è una festa facile, ma…

Ho scritto un piccolo contributo per lo speciale che il quotidiano Il secolo XIX ha dedicato al Natale 2022. Potete leggerlo qui di seguito.

Quanto a festività, il 2022 chiude in gloria. Per un fortunato incrocio di calendari, nelle stesse ore in cui i cristiani di tutto il mondo festeggiano Natale e Santo Stefano si celebra quest’anno anche una ricorrenza ebraica molto suggestiva: Chanukkah, o festa delle luci.

Di che si tratti è presto detto. Nel 165 avanti Cristo, in terra d’Israele, un manipolo di ebrei coraggiosi cacciò l’oppressore Antioco Epifane di Siria, riconquistando il tempio. Prima di accogliere di nuovo i fedeli, il luogo doveva però essere riconsacrato. Impresa non banale, visto che, a fare le cose come andavano fatte, bisognava riaccendere la lampada perenne con l’olio più puro, certificato dal Sommo Sacerdote e ricavato dalle prime gocce di spremitura delle olive.

Gli ebrei vittoriosi si trovarono così di fronte a un dilemma: usare il poco olio presente nel tempio, che avrebbe mantenuto accesa la lampada sì e no un giorno, oppure rimandare la consacrazione, e quindi la festa, a quando avessero racimolato una quantità sufficiente di combustibile.  Agirono d’impulso, tanta era la gioia della liberazione, e accesero la lampada col poco che avevano. Poi si misero subito al lavoro per produrre altro olio santo. Il Signore fece allora un grande miracolo: la lampada così alimentata rimase accesa non uno, ma ben otto giorni, lasciando il tempo ai fedeli industriosi di ricostituire le scorte. Ecco perché la festa di Chanukkah dura otto giorni: la prima sera, che quest’anno cadeva il 18 dicembre, si accende il primo lume del candelabro a otto bracci (più uno che fa da “servitore”). La seconda sera, il secondo lume, e così nei giorni seguenti, fino alla luce piena.

Scrivo queste cose da laica, ma tutt’altro che sorda alle ragioni della spiritualità. E scrivo da appassionata di storie, e soprattutto di quelle che arrivano intatte dall’infanzia dell’umanità. Lineari, adamantine, e però malleabili: da poterle impastare col tempo che siamo chiamati a vivere. Che, oggi come ieri, è un presente di guerra, carestia, malattia, ricchezze invereconde, abissali povertà.

Allo stesso modo, e ancora laicamente, mi appassiona la storia del figlio di Dio (nientemeno) che si fa carne di neonato (c’è essere più fragile?) e viene al mondo di notte, al freddo, povero e perseguitato, e per manifestarsi sceglie gli ultimi della Terra. Mi piace il rovesciamento che è l’anima di questo racconto. La potenza suprema che si specchia, e si riconosce, nella suprema debolezza. Mi piace l’idea che, per afferrare una Verità maiuscola, devi ribaltare il punto di vista. Mi piace immensamente il dettaglio che sia un neonato: un essere da accudire, nutrire, scaldare perché, giorno dopo giorno, con pazienza, con cura, possa farsi uomo e salvare il mondo. Mi piace la faccenda del cercare la luce ovunque sia andata a ficcarsi, persino in una stella di passaggio. Così come, di Chanukkah, mi piace che la luce, a cavallo del solstizio, nel momento più buio dell’anno, giorno dopo giorno apra un varco nelle tenebre. La storia di umani armati di fede nel futuro, che si mettono a fabbricare olio per tenere vivo il fuoco. E mi piace mescolarle, queste storie. Sento che c’è qualcosa che travalica non solo i confini confessionali, ma proprio il recinto stesso della religione. Che c’è un sentiero. 

Natale non è una festa facile. Col suo carico di aspettative, non di rado spalanca voragini di sofferenza. Natale quest’anno, poi, è festa complicatissima. Al consueto, umanissimo carico di desideri, all’invincibile bisogno di essere amato che ciascuno porta in petto, aggiungi lo spavento della guerra e della crisi. Del gas che costa e allora meglio spegnere. Dell’elettricità che non ne parliamo e allora metti i led e spera in Dio. Del cibo che non smette di aumentare di prezzo, e il ristorante scordatelo per un po’. Della benzina che lo sappiamo com’è, e allora stai a casa. Più il trauma di un virus che è insieme pestilenza medioevale e fantascienza, e ferita sociale da ricucire.

Dalla notte dei tempi, le storie di Natale e di Chanukkah ci dicono invece che è proprio quando l’oscurità si mostra vittoriosa che bisogna reagire. Che la notte va attraversata con coraggio. Che bisogna immaginare il futuro, e darsi da fare, giorno per giorno, per costruirlo. Nella sua millenaria saggezza, la nostra lingua questa cosa ce la sussurra nelle orecchie da settimane. “E tu? Dove lo fai Natale quest’anno?” Fare Natale. Imperioso complemento oggetto. Avanti, allora: proviamoci. Facciamolo. Facciamolo insieme. 

Scuole al via

Posto qui sotto un mio contributo pubblicato dal quotidiano Il Secolo XIX in 14 settembre 2022 all’avvio del nuovo anno scolastico.

Faccio brutta figura se dico che mi preparo al rientro in classe anche guardando su Netflix l’ultima stagione di Skam Italia? Per chi ha più di venticinque anni preciso che si tratta della versione italiana di una serie norvegese e i protagonisti sono adolescenti che frequentano il liceo J.F. Kennedy di Roma. Tratta di primi amori, omosessualità, bullismo, integrazione, malattia psichiatrica. Elenco non esaustivo perché in Skam Italia c’è davvero tanto di quel che può succedere oggidì. E, soprattutto, c’è il punto di vista degli adolescenti. Solo il loro. Pochi genitori, perlopiù assenti. Nessun insegnante.

Sia come sia, mi perdo nelle traversie del protagonista, Elia, alle prese con un problema di cui mi imbarazza parlare, e allora mi rifugio nel medichese: “micropenia”. Gli sceneggiatori invece parlano chiaro: pene piccolo (e non scrivono “pene”). Esplorano le ripercussioni della faccenda sulla psiche e la socialità di un adolescente. E io mi appassiono, faccio il tifo per Elia e il suo gruppo di amici. Ma quando la cosa diventa di dominio pubblico e tutta la scuola ride del protagonista, ecco, in quel preciso momento torno a domandarmi: e gli insegnanti? Dove diavolo stanno gli insegnanti del liceo J.F. Kennedy di Skam Italia? Ininfluenti. Trasparenti. Se il punto di vista è dei ragazzi, allora questi ragazzi i prof non li vedono proprio.

Non è un dettaglio, è uno schiaffo alla narrazione scolastica che va per la maggiore, e che ha una signora tradizione, da “Cuore” a “Ex cattedra” di Starnone fino agli ultimi epigoni che non dico perché tanto, al giro, li trovate tra i best seller. Tutti libri dove lo sguardo sui giovani è uno sguardo adulto. Cosa legittima, ma Skam Italia è altro. Disegna una scuola che non è solo un fondale (nell’ultima stagione, per dire, ci sono le elezioni studentesche. Spoiler: le vincono i “fasci”), ma è una scuola senza prof. E una rimozione così, penso, non può essere casuale.

Per capire, scendo dagli spalti in difesa della categoria e mi sforzo di tornare a quella che ero io a quell’età. E mi tocca ammettere che ci saranno pure stati i professori, ma la scuola per me erano i compagni e le compagne e tutto quello che succedeva nell’intervallo, nel cambio d’ora, prima di entrare in classe, dopo l’ultima campanella e in gita scolastica. La vita era lì. La vita, a diciassette anni, pulsava da un’altra parte. Il pulsare altrove che racconta Skam Italia.

E allora, mentre li guardo dalla soglia, senza mascherine, i banchi di nuovo uniti, e loro stretti, appiccicati, ridanciani, vedo la cosa gigantesca che si sono persi in questi anni disgraziati. Una cosa che, dal loro punto di vista, il loro sacrosanto punto di vista, è molto più decisiva di qualche regola grammaticale da rinforzare (il mio punto di vista) o di qualche competenza matematica da consolidare. E aspettando che la campanella ci richiami tutti all’ordine, mi ritiro in un angolo e mi alleno a scomparire. Il mio ruolo prevede comunque che io mi faccia da parte. Offrire spunti, ma poi lasciare che i protagonisti della storia siano loro.