Ai miei, che non sono più bambini, dico che non è tutto negativo. Che venire a scuola in presenza è come stare su un treno in corsa. Non puoi scendere. Non puoi scegliere. Non puoi spegnere la telecamera e chissenefrega, non puoi dare la colpa alla connessione o al device o copiare spudoratamente (non troppo, almeno). Non puoi perché a scuola stai su quel treno, su quel binario. E non mi sfuggi.
A casa è diverso. A casa dipende tutto da te. Alzarsi, lavarsi, cambiarsi, far colazione, connettersi, ascoltare, intervenire, imparare. Solo da te. Non è tutto negativo, insisto. Pensaci. A casa fai da solo, decidi tu di salire sul treno e tracci il binario. Si chiama “autonomia” e significa avere un po’ meno bisogno che qualcuno ti tenga per mano e ti indichi la strada. Significa che diventi grande. Una faticaccia, te lo concedo. Ma anche una gioia, fidati.
Ho scritto questo articolo per «La Stampa» del 13 settembre 2020. Qui trovate l’originale.
Domani non è il primo giorno di scuola. La scuola comincia il primo settembre, quando i neoassunti si presentano in Segreteria a firmare la presa di servizio e la voragine delle cattedre che rimarranno scoperte si staglia all’orizzonte nella sua plastica desolazione. Così ogni anno, così il primo settembre 2020. Sì, ma il Covid? Il distanziamento? Le classi troppo numerose? Quest’è, signora mia. Il virus se ne farà una ragione.
Primo giorno vero, quindi. Noi di ruolo partecipiamo al Collegio Docenti. All’ora convenuta, come ogni anno, il sollievo dei neopensionati assenti inonda le chat. Reggiamo il colpo, forse perché stavolta siamo tutti in pantofole davanti a uno schermo. Il dirigente non si è ancora collegato e noi ci prendiamo le misure l’un altro. Come ogni anno. Chi è andata dal parrucchiere apposta, chi ostenta improponibili t-shirt adolescenziali. Chi, con piglio guascone, calendario alla mano, snocciola il conto dei possibili ponti (8 dicembre sì, 25 aprile è domenica, primo maggio neanche a parlarne). Chi ride, chi risponde a tono. Come ogni anno, solo che, invece del sovrappeso, misuriamo il tinello altrui. Io mi sento bene, in pace. È bello ritrovare tutto come l’ho lasciato. Tanta pervicace immutabilità mi consola. È quello che voglio. Un anno qualunque. Allievi, colleghi, casini: un anno normale.
Viviamo tempi complicati ed è stato necessario annullare il terzo incontro di Sconfinamenti. Avrei voluto discutere di tante cose con Cristina de Stefano, l’autrice di «Il bambino è il maestro. Vita di Maria Montessori», edito da Rizzoli all’inizio dell’estate.
Per ricostruire la vita della pedagogista (mai etichetta fu più limitante), De Stefano ha visitato archivi in mezzo mondo e ha messo insieme una corposa bibliografia. L’apparato finale dà conto di questo importante lavoro. Il testo corre invece leggero, sgranando i momenti essenziali della biografia in capitoletti tanto agili quanto centrati all’obiettivo: lasciare da parte le (potenzialmente) infinite disquisizioni sul Metodo Montessori concedendo tutta l’attenzione alla protagonista. Interessante – e tanto – di per sé.Due riflessioni allora, nel breve arco di attenzione che un post può conquistarsi.La prima: la scuola che Montessori frequenta da bambina è quella del libro Cuore di Edmondo De Amicis (1886). Un mondo pressoché maschile dove alle femmine resta (solo) l’esercizio della maternità (la mamma, la “maestra-mamma”, la sorella maggiore facente funzione…). Nonostante il profluvio di buoni sentimenti, la regola tra i banchi deamicisiani è la competizione (punizioni, rabbuffi, medaglie e primi della classe). E il bambino “buono” – da lodarsi, da portare ad esempio – è quello che si comporta da adulto. L’infanzia tutta, diciamolo, era a quei tempi una specie di malattia da curare. Ora, basta avere solo un’infarinatura del Metodo, per rendersi conto della capacità visionaria che Montessori ha avuto provenendo da quella scuola lì, da quel mondo lì. Che è poi il talento di rivoltare la realtà come un calzino e, en passant, rendere la nostra vita migliore. Dote che è di pochi, e grandissimi. E siccome grazie a questa dote Montessori ci ha cambiato la vita a tutti noi studenti e insegnanti e genitori, meriterebbe di stare nei libri di storia del pensiero (Non solo pedagogico. Il fatto che non ci sia è cosa che, temo, ha anche a che fare con il fatto che si chiama Maria e non Mario).
Questo articolo è uscito su «La Stampa» il 29 aprile 2020, in piena pandemia. Qui l’originale.
La scuola a distanza non la posso fare per il semplice fatto che la didattica non è trasmissione ma relazione. Mi servono studenti, stare tra i banchi, perfino il planisfero appeso alla parete perchè, quando indico l’isola di Sant’Elena, si voltano e escono dal torpore. Mi serve il silenzio (attenti o assenti?). E questo chiasso sarà partecipazione o protesta? Mi servono il cappuccio calzato di chi si protegge e l’ombelico in vista di chi sfida il mondo. E a distanza non c’è santo, ciò che mi serve per fare scuola, non ce l’ho. Però la faccio.
All’inizio è come quando manca l’acqua. Telefoni, sbraiti e poi esci a fare scorta. Ti attrezzi.. Noi, uguale. Risultato? Mail, audio e videolezioni, Moodle, Youtube, Whatsapp, Zoom, Skype, Meet. Il corpo docente più vecchio del mondo, nel Paese più vecchio del mondo, catapultato nel XXI secolo. Un bagno di gioventù, penso sulle prime. Ma sbaglio. Perchè la gioventù chiamata a popolare le aule virtuali è sì nativa digitale, ma soprattutto nativa, e se qualcuno pensa che l’adolescente medio sappia mandare un’email, è perchè non frequenta adolescenti. Stessa via crucis per l’accesso alla piattaforma di e-learning, e allora confesso: ho sacrificato la povera Ermengarda a un florilegio di tutorial. Poi, certo, si aiutano anche tra loro. Peer-to-peer, dicono i manuali di pedagogia. E alla fine imparano. Che mandare una mail non è una tragedia e che la tecnologia non è solo cazzeggio. Vuoi vedere che è scuola anche questa? Vuoi vedere che, durante una pandemia, se incroci l’articolo 33 della Costituzione (quello sulla libertà di insegnamento) con l’articolo 34 (quello sul diritto allo studio), è scuola anche la chat di classe dedicata al Dantedì? Fatti non foste a viver come bruti. Ciascuno posta una terzina, commento libero, l’insegnante dirige il traffico.
Imparano, imparano. Persino troppo, ci diciamo nella chat dei prof (come tutti, è lì che diamo il peggio). Campioni mondiali di copiaincolla, mugugnamo. Primatisti di Wikipedia (faccina arrabbiata). Ma anche a copiare, bisogna essere capaci, penso io. Soft skills. Conosco gente che ci campa. Ma tra le soluzioni adottate per affrontare le interrogazioni orali, la mia preferita resta la corona di post it colorati con cui l’adolescente decora il bordo esterno del monitor, invisibili alla telecamera. Poniamo Storia, poniamo, ad esempio, la Rivoluzione francese. La difficoltà, immagino, non sta solo nello scegliere le informazioni essenziali (Marat sarà importante? Più importante di Robespierre? La Vandea viene prima o dopo la presa della Bastiglia? Il trattato di Campoformio è lo stesso di Foscolo?) ma anche nell’ordinare i foglietti in modo tale che la risposta alla domanda salti all’occhio all’istante, evitando lo strabuzzamento affannato intorno al video, indizio di pratica fraudolenta. Si tratta quindi di scegliere, dare un ordine e in quell’ordine raccappezzarsi. Skills tutt’altro che soft. Torna in mente allora la raffinata tecnica con cui il dizionario di Italiano, temporibus illis, veniva arricchito di notazioni indecifrabili all’occhio auspicabilmente presbite dei commissari di maturità. Alla parola “unghia”, per dire, data di nascita e morte di Ungaretti. Un lavoro certosino, pomeriggi, nottate. Come Ungaretti, anche noi ardevamo d’incosapevolezza istoriando di ghirigori a punta fine le finissime pagine. Amanuensi del dettaglio, incidevamo, più che scrivere, tanto che, chi avesse oggi sottomano quel medesimo dizionario, le tracce di tanta insicurezza le ritroverebbe integre. Altro è il destino dei fogliettini colorati che non vedo, che posso solo immaginare, seduta come sono dall’altra parte dello schermo. Però mi vedo l’adolescente. Recluso come un giovane monaco tibetano, ha composto un mandala con la polvere del suo sapere. Pomeriggi, nottate. Giallo per Stati Generali, Pallacorda e Bastiglia, rosa per Girondini, Giacobini e Foglianti, viola acceso per il Terrore. Poi si alza il vento, l’interrogazione finisce, i biglietti volano nella carta straccia e il giovane monaco impara l’impermanenza di tutte le cose, compresi Robespierre, Foscolo e perfino Napoleone.
Quindi tutto bene? Certo che no, qui si tratta di far di necessità virtù. E per intanto appuntarsi una cosetta. È andata così: la miglior interrogazione dell’anno mi capita a distanza. Argomento: il Risorgimento. Materiali: briciole, rispetto a quanto avrei spiegato in aula. Ma il giovane monaco sa tutto. Il voto è, giustamente, stellare. «Le mie spiegazioni in classe non servono a niente» piagnucolo (chi non piagnucola, di questi tempi?). Il giovane monaco ci pensa su: «Mannò, prof. È che questo argomento mi interessa proprio». Game, set, match. La scuola è l’occasione per capire chi sei. Niente di più, e niente di meno. Scema io che l’avevo dimenticato. A distanza o in presenza, in questa gran partita il giovane monaco è il protagonista. Noi, al massimo, gli alziamo la palla.