C’è un passo, in Storia di Shuggie Bain di Douglas Stuart, che dice la stoffa dell’autore. Wullie, il saggio, buono, affascinante Wullie, torna dal fronte. È la seconda guerra mondiale e lui, scozzese di Glasgow, ha servito in Nordafrica. Si presenta inaspettato a casa dalla giovane moglie Lizzie e dalla figlioletta Agnes. Sono passati anni dall’arruolamento, la bambina è cresciuta e pronta a giocare con la bambola che lui le porta in dono. I due giovani sposi intanto si chiudono in camera, fanno l’amore, poi lui sente un lamento provenire da un angolo e si ferma. Nella stanza c’è un neonato. Che, intuiamo, Lizzie ha concepito con il droghiere. Un bambino figlio della miseria contro cui la donna ha dovuto combattere in assenza del marito. In casa intanto sciamano amici a parenti, tutti a festeggiare il ritorno del soldato. Non c’è spazio per le parole, le spiegazioni. E poi intuiamo che il buon Wullie, è uno che capisce. Che pensa di avere una parte di responsabilità. Di essere stato lontano dalla sua famiglia troppo a lungo. La mattina successiva, dopo aver dato la colazione alla figlia divertendola con mille scherzetti, adagia il neonato nella carrozzina, gli rimbocca teneramente la coperta, esce e torna verso sera. Solo. Ore dopo, tr le lenzuola, Lizzie trova il coraggio di chiedergli del bambino. “Quale bambino?” risponde Wullie.
Storia di Shuggie Bain di Douglas Stuart è questo. Innocenza e crudeltà. Ferocia e sentimento, inestricabili.
C’è da dire che Wullie e Lizzie sono due personaggi secondari e il tempo del racconto non è il Dopoguerra. La vicenda ruota invece intorno alla figura di Agnes – vitale, brillante, alcolizzata – e del figlio Shuggie. Bambino, poi ragazzino poi ragazzo alle prese con una madre amatissima e disperatamente inaffidabile. Con i fratelli che uno dopo l’altro, per salvarsi dall’abisso autodistruttivo di lei, se ne vanno. Con l’allegria quando lei si mette in ghingheri e il vomito da pulire al ritorno da scuola. Con figure paterne senza sostanza. Con la fame perché il sussidio è finito tutto in birra e vodka. Con la cattiveria degli altri bambini che lo vedono diverso e lo marchiano a fuoco. Frocetto. Il tutto nella Scozia degli anni Ottanta, nei visceri di una working class che non è più working per via della crisi e dei tagli della Thatcher, e che per orizzonte ha il buio polveroso delle miniere di carbone dismesse.
La luce è tutta nello sguardo della voce narrante. Illumina un’umanità derelitta, ma non doma. A quindici anni Agnes sostituisce i denti storti con una dentiera capace di regalarle il sorriso di Elisabeth Taylor. Sfida la fame e la vergogna armata di tacchi a spillo e cappotto di mohair. Cura la messa in piega e si concede per un paio di lattine di birra scura. La luce è nella devozione incrollabile di Shuggie, nel suo faticoso, doloroso, solitario crescere tenendola per mano. Sua la storia – titolo italiano perfetto – perché suo è lo sguardo amorevole. E anche nostro, alla fine di questa bella, intensa lettura.
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