Ieri mattina, verso la fine dell’incontro su Meet con l’istituto Fra Salimbene di Parma, una ragazzina mi chiede cosa penso del cambiamento climatico (in effetti, la faccenda ha nel mio romanzo “Respira con me” un suo piccolo, decisivo ruolo).
Lei è in classe, io a casa, lei ha la mascherina calzata come tutti i compagni e le prof che hanno organizzato l’incontro con l’autrice.
“Il cambiamento climatico?”
Sotto la mascherina la vedo annuire. Sono ragazzi in gamba. Hanno letto il mio romanzo con passione e fantasia, hanno persino realizzato un loro libro, lo trovate qui sotto, e non è commovente? Non è così pieno di vita? Di futuro? Così non sto tanto a pensarci e rispondo di getto. Meritano tutta la sincerità di cui sono capace. E quindi non parlo di ghiacciai, biodiversità, deforestazione, permafrost, non dico “antropocene” o “economia circolare”. Non mi nascondo dietro l’armamentario consueto. Dico che, quando facevamo terza media noi, a metà degli anni Ottanta, non ne sapevamo niente. Alcuni scienziati, forse. Pochissimi. Ma a noi nessuno ha mai spiegato nulla.
Lei resta zitta.
“Nulla, capisci? Non sapevamo nulla!” ripeto. Lei ancora zitta. Ci si intimidisce anche a distanza, penso, ma poi mi sento arrossire. Non è lei che ha un problema. Sono io che non ho risposto alla domanda. Ho tirato fuori una scusa, ho messo le mani avanti, una specie di giustificazione per non aver fatto i compiti. Non è lei la ragazzina, sono io.
Vergogna.
Io che sono adulta. Noi, che siamo adulti. Noi che veniamo a spiegarti il cambiamento climatico, che lo ficchiamo persino nei romanzi. Noi che prendiamo le decisioni. O magari non le prendiamo, e poi questo è il risultato.
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