Scuole al via

Posto qui sotto un mio contributo pubblicato dal quotidiano Il Secolo XIX in 14 settembre 2022 all’avvio del nuovo anno scolastico.

Faccio brutta figura se dico che mi preparo al rientro in classe anche guardando su Netflix l’ultima stagione di Skam Italia? Per chi ha più di venticinque anni preciso che si tratta della versione italiana di una serie norvegese e i protagonisti sono adolescenti che frequentano il liceo J.F. Kennedy di Roma. Tratta di primi amori, omosessualità, bullismo, integrazione, malattia psichiatrica. Elenco non esaustivo perché in Skam Italia c’è davvero tanto di quel che può succedere oggidì. E, soprattutto, c’è il punto di vista degli adolescenti. Solo il loro. Pochi genitori, perlopiù assenti. Nessun insegnante.

Sia come sia, mi perdo nelle traversie del protagonista, Elia, alle prese con un problema di cui mi imbarazza parlare, e allora mi rifugio nel medichese: “micropenia”. Gli sceneggiatori invece parlano chiaro: pene piccolo (e non scrivono “pene”). Esplorano le ripercussioni della faccenda sulla psiche e la socialità di un adolescente. E io mi appassiono, faccio il tifo per Elia e il suo gruppo di amici. Ma quando la cosa diventa di dominio pubblico e tutta la scuola ride del protagonista, ecco, in quel preciso momento torno a domandarmi: e gli insegnanti? Dove diavolo stanno gli insegnanti del liceo J.F. Kennedy di Skam Italia? Ininfluenti. Trasparenti. Se il punto di vista è dei ragazzi, allora questi ragazzi i prof non li vedono proprio.

Non è un dettaglio, è uno schiaffo alla narrazione scolastica che va per la maggiore, e che ha una signora tradizione, da “Cuore” a “Ex cattedra” di Starnone fino agli ultimi epigoni che non dico perché tanto, al giro, li trovate tra i best seller. Tutti libri dove lo sguardo sui giovani è uno sguardo adulto. Cosa legittima, ma Skam Italia è altro. Disegna una scuola che non è solo un fondale (nell’ultima stagione, per dire, ci sono le elezioni studentesche. Spoiler: le vincono i “fasci”), ma è una scuola senza prof. E una rimozione così, penso, non può essere casuale.

Per capire, scendo dagli spalti in difesa della categoria e mi sforzo di tornare a quella che ero io a quell’età. E mi tocca ammettere che ci saranno pure stati i professori, ma la scuola per me erano i compagni e le compagne e tutto quello che succedeva nell’intervallo, nel cambio d’ora, prima di entrare in classe, dopo l’ultima campanella e in gita scolastica. La vita era lì. La vita, a diciassette anni, pulsava da un’altra parte. Il pulsare altrove che racconta Skam Italia.

E allora, mentre li guardo dalla soglia, senza mascherine, i banchi di nuovo uniti, e loro stretti, appiccicati, ridanciani, vedo la cosa gigantesca che si sono persi in questi anni disgraziati. Una cosa che, dal loro punto di vista, il loro sacrosanto punto di vista, è molto più decisiva di qualche regola grammaticale da rinforzare (il mio punto di vista) o di qualche competenza matematica da consolidare. E aspettando che la campanella ci richiami tutti all’ordine, mi ritiro in un angolo e mi alleno a scomparire. Il mio ruolo prevede comunque che io mi faccia da parte. Offrire spunti, ma poi lasciare che i protagonisti della storia siano loro.

Di Luce propria agli ottavi del torneo di Robinson

Il mio romanzo Di luce propria (Mondadori) ha ben figurato nel torneo letterario organizzato dall’inserto culturale Robinson del quotidiano La repubblica. Su oltre 800 titoli di narrativa usciti nel 2021 e selezionati in partenza, la storia di Antonio Casagrande è arrivata fino agli ottavi di finale. Grazie di cuore ai lettori e alle lettrici che hanno reso possibile questo bel risultato.

Il docente “esperto” e una modesta proposta

Il quotidiano Il secolo XIX del 6 agosto ha pubblicato questa mia riflessione sulla figura del “docente esperto” introdotta dal Decreto Aiuti Bis. Di seguito il testo:

Contestualizziamo. Dati del Ministero alla mano, a ottobre 2021 i docenti erano 856.427. Se non capisco male, con le novità introdotte dal decreto 8.000 di loro potranno raggiungere la qualifica di docente “esperto”. Lo riscrivo: 8.000. Su 856.427. Uno su cento. Altri numeri, sempre ottobre 2021. Le scuole statali risultavano 8.029. Fa (meno di) un docente “esperto” per scuola. Se va bene, sennò finisce come il pollo di Trilussa, a chi troppo e a chi niente.  E se i numeri sono questi, forse l’articolo posso anche chiuderlo qui. Di cosa sto parlando? Tutta questa faccenda non ha tutta l’aria di un’improvvida amenità agostana?

Provo comunque a entrare nel merito. Cerco informazioni e scopro che il docente (inesperto?) diventerebbe “esperto” dopo tre corsi di formazione conclusi positivamente, ciascuno di durata triennale. Nove anni in tutto. Di che formazione si tratti non è, al momento, dato sapere. Rimango quindi al fatto che, secondo il Ministero, cioè il datore di lavoro, un percorso di formazione potrà garantire un aumento di stipendio. Non suona un po’ strano? Ma forse il problema è la parola “esperto”. Incauta. Perfetta per far venire un travaso di bile a me e agli altri 856.426 inesperti. Secondo il dizionario infatti esperto è “chi ha esperienza”, cioè, terra terra, chi sta in classe da qualche anno. E se l’aggiornamento è un pezzo importante del fare scuola – e infatti sono tenuta ad aggiornarmi – è anche vero che confondere quello che imparo ai corsi con quello che effettivamente succede tra i banchi è di un’ingenuità grossolana. Se non peggio. Fumo negli occhi a nascondere il vulnus. E cioè che ai docenti italiani – gli 856.427 inesperti a cui affidiamo figli e futuro – bisognerebbe assicurare ciò che spetta ai colleghi europei in termini di riconoscimento sociale e trattamento retributivo. Tanto più dopo la grande risposta della scuola alla pandemia.

Ad ogni modo capisco la questione è ancora un po’ per aria e che per i dettagli bisognerà aspettare l’autunno. “Dio sta nei dettagli” diceva Flaubert. “Anche il Diavolo” rispondeva Wittgenstein. Io intanto mi porto avanti con una modesta proposta. Valutare la qualità dell’insegnamento è difficile, però qualcosa di misurabile c’è, ossia la parte di lavoro non pagata – o pagata una miseria – che serve a far funzionare la macchina. Un coordinatore di classe mette in tasca, se va bene, duecento euro all’anno. Lordi, in busta l’estate successiva. Un referente di indirizzo poco di più. E anche le gite, adesso che, se tutto va bene, ricominceranno. Una gioia per tutti i ragazzi, una grande occasione per chi a casa ha poche possibilità. Una responsabilità gigantesca per i docenti, giorno e notte, per una cifra offensiva. Ecco, mi piacerebbe che i denari assegnati (fra nove anni) a docenti “esperti” andassero (subito) a chi fa funzionare la scuola. Chi si occupa dei Piani Didattici Personalizzati. Chi organizza le sostituzioni. Chi accompagna i ragazzi a vedere la Mole Antonelliana, il Colosseo, il Quirinale. Troppo facile?