Marco Olmo è nato nel 1948, e secondo la multinazionale del cemento per cui ha lavorato tutta la vita, la montagna dove è venuto al mondo era buona per farci una cava. Giovane uomo, s’è trovato a guidare l’escavatore che in mezz’ora ha sbriciolato casa sua. Non c’erano alternative, dice nel documentario che Paolo Casalis e Stefano Scarafia gli hanno dedicato. Guardatelo, se vi capita. Io l’ho visto in un paesino dell’Oltregiogo ligure che si chiama Bosio, ed è sede del Parco Naturale delle Capanne di Marcarolo. Terra di vinti, anche questa, dove i ragazzi del 1948 se non hanno dovuto guidare un escavatore, hanno comunque dovuto abbandonare la loro casa e inventarsi un futuro lontano, in fabbrica, al porto, o tra i caruggi di Genova.
«Per questo Olmo è un eroe popolare» tuona il presidente del Parco. Perché il prigioniero dell’escavatore che sventrava casa sua, ha saputo ribellarsi. Lui lo dice con semplicità. «Ho cominciato per vendetta. Perché a correre non c’è santo: se sei davanti sei davanti, se sei dietro sei dietro». Non è come nel lavoro, non è come nella vita. Se sei il più forte e fortunato vinci, se no perdi. E così il vinto dalla Storia ha vinto le corse più dure, ed è diventato lui Storia, Leggenda.
Leggete il palmares: Marathon des Sables, Gran Raid du Cro-Magnon, Desert Marathon, fino al doppio exploit dell’Ultratrail du Mont Blanc, una gara impossibile, 166 km e 9900 metri di dislivello positivo intorno alla montagna più alta d’Europa, che Olmo ha vinto nel 2006 e nel 2007.
A cinquantanove anni.
Il documentario filma la sua partecipazione all’Ultra Trail du Mont Blanc dell’anno successivo, il 2008. La camera riprende tutto, impietosa. Le gambe fasciate alla partenza. La tensione. Le lacrime. Il peso di piombo dello speaker che lo acclama, all’ingresso nella piazzetta bomboniera di Clamonix, gremita: «Il due volte vincitore della gara più dura al mondo. L’uomo che ha fermato il tempo».
Che brutta espressione, penso.
Con quel sapore di slogan, così poco aderente alla verità delle immagini.
La camera invece mi sembra più onesta, e filma proprio i sessant’anni di Marco Olmo. L’abbigliamento pagato dallo sponsor e la lampadina frontale sbilenca sulla testa, così asimmetrica, così poco in sintonia con l’immagine ideale dell’uomo che ha fermato il tempo, così perfetta invece per la marionetta che arranca lungo il sentiero. La camera segue la marionetta, la paura, la fatica. Il partire lento e il recuperare dopo. Filma il buio, la solitudine, il dolore, la rabbia. La vendetta. E tu che guardi il lumino nella notte ripensi all’escavatore, al cemento, al piatto di pasta integrale e patate nel tinello maron, alla brutta villetta che immagini – ma chi lo sa? – gli abbia assegnato la multinazionale in impossibile risarcimento. L’allenamento lungo i sentieri che partono dalla cava e tornano alla cava, come fosse una ferita che non si riesce a rimarginare. Poi vedi l’amore della moglie che sola – niente preparatore atletico, niente sponsor medici psicologi o motivatori – sola lo aspetta al punto di ristoro. Anche lei non c’entra niente con l’idea patinata della donna del campione, anzi è parecchio fuori schema, capelli grigi, niente trucco, il fisico un po’ appesantito di una «splendida» sessantenne, un pile qualsiasi, una vecchia tuta. Chissenefrega della telecamera. Lei è solo Penelope, e sta in pensiero. Penelope che attende, scrive sul taccuino il tempo del passaggio, prepara il cibo, incoraggia il suo uomo dicendogli in dialetto che lo vede bene, anzi benissim.
Anche se non è vero.
Perché non è vero che Marco Olmo ha fermato il tempo. Né quando ha vinto il Monte Bianco né quando, come nel 2008, si è ritirato perché il dolore a una gamba si è fatto severo. Né lo ha fermato quando ha vinto la Desert Marathon né quando si è iscritto per la quindicesima volta alla Marathon des Sables, che non ha mai vinto anche se è la sua preferita.
Perché il tempo non si ferma, nonostante quello che dice la pubblicità. A Bosio gli ho chiesto cosa significa per lui invecchiare, se gli fa paura. Avevo in testa certe immagini televisive, l’idea che diventare vecchi sia una cosa di per sé disdicevole, e quindi da nascondere a tutti i costi, da mascherarsi con tutti i mezzi, un lifting, una tintura, una pastiglietta.
Mi ha risposto che sì, che invecchiare gli fa paura. Che solo a vederlo quel documentario ogni volta è una pugnalata. Perché ci si vede male. Perché la vecchiaia è per tutti una cosa difficile di affrontare, e lo è anche per lui. Ma questo non è un buon motivo per nasconderla, negarla, mascherarla, dimenticarla, fare come se non esistesse.
E allora ho pensato che nonostante gli slogan che è facile coniare su di lui, con la sua vittoria sul Monte Bianco a quasi sessant’anni, con il suo fisico smagrito la faccia piena di rughe, Marco Olmo il ribelle è una specie di bomba lanciata dentro l’obbligo di restare giovani e belli. Che con la sua scelta etica di diventare vegetariano, quando venticinque anni fa aveva appena cominciato ad affrontare le gare più estreme, è una bomba contro il sistema che fa degli atleti di punta strumenti troppo malleabili nelle mani di medici e preparatori atletici. Che con il suo rifiuto a correre il Monte Bianco col maltempo – gli animali scendono, perché io devo salire, spiega – è una bomba lanciata contro gli sponsor. Che con il suo dichiararsi non un vincente ma un vinto – perché ha dovuto radere al suolo casa sua e perché sono infinitamente più numerose le volte in cui non arrivi primo di quelle in cui porti a casa la medaglia – con il suo non sorridere mai, così poco consono nel tempo dell’ottimismo, è una bomba più potente e persuasiva di tanti spot di colle per dentiere e assorbenti contro le piccole perdite di urina e cremine miracolose.
(La foto è tratta da questo articolo sulla Stampa, piuttosto interessante)
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