Cercare una strada

Esce oggi questo piccolo libro, 128 pagine in tutto, per me molto speciale, pieno di cose che non ho mai fatto prima, come scrivere racconti e tentare esercizi di Botanica letteraria. Sono uscita insomma dalla mia comfort zone: ne sono un po’ spaventata e un po’ fiera.

C’è un cedro millenario, protagonista eponimo. Ci sono piccoli umani che si affannano, a volte con successo, altre meno, le loro vite intrecciate a quella di un maestoso essere vivente che abita il tempo altrimenti da noi.

Il nostro tempo nel frattempo si è complicato. Il riscaldamento globale è il problema dei problemi. Nel libro c’è anche questo. E c’è il desiderio di cercare una strada, una via d’uscita.

la cugina Angela

Ho scritto questo articolo per «Grazia» del 21 novembre 2013.

Le donne che vivevano sulle colline tra Tanaro e Po, 42 anni fa, andavano a partorire all’ospedale di Casale Monferrato. Così mia madre. Poi ci trasferimmo, e a Casale tornavamo, di tanto in tanto, a trovare una cugina di mio padre, che faceva la maestra. Era una donna di una bontà da libro Cuore, una “signorina” che a me pareva una gran signora, con lo scamiciato e al collo la medaglietta con la Madonna. Quando arrivai alle Elementari, mi chiese di mandarle delle lettere, che lei avrebbe corretto. “Hai scritto emozzionediceva –“ma all’emozione basta una zeta”.

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L’uomo che (non) ha fermato il tempo

Marco OlmoMarco Olmo è nato nel 1948, e secondo la multinazionale del cemento per cui ha lavorato tutta la vita,  la montagna dove è venuto al mondo era buona per farci una cava. Giovane uomo, s’è trovato a guidare l’escavatore che in mezz’ora ha sbriciolato casa sua. Non c’erano alternative, dice nel documentario che Paolo Casalis e Stefano Scarafia gli hanno dedicato. Guardatelo, se vi capita. Io l’ho visto in un paesino dell’Oltregiogo ligure che si chiama Bosio, ed è sede del Parco Naturale delle Capanne di Marcarolo. Terra di vinti, anche questa, dove i ragazzi del 1948 se non hanno dovuto guidare un escavatore, hanno comunque dovuto abbandonare la loro casa e inventarsi un futuro lontano, in fabbrica, al porto, o tra i caruggi di Genova.

«Per questo Olmo è un eroe popolare» tuona il presidente del Parco. Perché il prigioniero dell’escavatore che sventrava casa sua, ha saputo ribellarsi. Lui lo dice con semplicità. «Ho cominciato per vendetta. Perché a correre non c’è santo: se sei davanti sei davanti, se sei dietro sei dietro». Non è come nel lavoro, non è come nella vita. Se sei il più forte e fortunato vinci, se no perdi. E così il vinto dalla Storia ha vinto le corse più dure, ed è diventato lui Storia, Leggenda.

Leggete il palmares: Marathon des Sables, Gran Raid du Cro-Magnon, Desert Marathon, fino al doppio exploit dell’Ultratrail du Mont Blanc, una gara impossibile, 166 km e 9900 metri di dislivello positivo intorno alla montagna più alta d’Europa, che Olmo ha vinto nel 2006 e nel 2007.

A cinquantanove anni.

Il documentario filma la sua partecipazione all’Ultra Trail du Mont Blanc dell’anno successivo, il 2008. La camera riprende tutto, impietosa. Le gambe fasciate alla partenza. La tensione. Le lacrime. Il peso di piombo dello speaker che lo acclama, all’ingresso nella piazzetta bomboniera di Clamonix, gremita: «Il due volte vincitore della gara più dura al mondo. L’uomo che ha fermato il tempo».

Che brutta espressione, penso.

Con quel sapore di slogan, così poco aderente alla verità delle immagini.

La camera invece mi sembra più onesta, e filma proprio i sessant’anni di Marco Olmo. L’abbigliamento pagato dallo sponsor e la lampadina frontale sbilenca sulla testa, così asimmetrica, così poco in sintonia con l’immagine ideale dell’uomo che ha fermato il tempo, così perfetta invece per la marionetta che arranca lungo il sentiero. La camera segue la marionetta, la paura, la fatica. Il partire lento e il recuperare dopo. Filma il buio, la solitudine, il dolore, la rabbia. La vendetta. E tu che guardi il lumino nella notte ripensi all’escavatore, al cemento, al piatto di pasta integrale e patate nel tinello maron, alla brutta villetta che immagini – ma chi lo sa? – gli abbia assegnato la multinazionale in impossibile risarcimento. L’allenamento lungo i sentieri che partono dalla cava e tornano alla cava, come fosse una ferita che non si riesce a rimarginare. Poi vedi l’amore della moglie che sola – niente preparatore atletico, niente sponsor medici psicologi o motivatori – sola lo aspetta al punto di ristoro. Anche lei non c’entra niente con l’idea patinata della donna del campione, anzi è parecchio fuori schema, capelli grigi, niente trucco, il fisico un po’ appesantito di una «splendida» sessantenne, un pile qualsiasi, una vecchia tuta. Chissenefrega della telecamera. Lei è solo Penelope, e sta in pensiero. Penelope che attende, scrive sul taccuino il tempo del passaggio, prepara il cibo, incoraggia il suo uomo dicendogli in dialetto che lo vede bene, anzi benissim.

Anche se non è vero.

Perché non è vero che Marco Olmo ha fermato il tempo. Né quando ha vinto il Monte Bianco né quando, come nel 2008, si è ritirato perché il dolore a una gamba si è fatto severo. Né lo ha fermato quando ha vinto la Desert Marathon né quando si è iscritto per la quindicesima volta alla Marathon des Sables, che non ha mai vinto anche se è la sua preferita.

Perché il tempo non si ferma, nonostante quello che dice la pubblicità. A Bosio gli ho chiesto cosa significa per lui invecchiare, se gli fa paura. Avevo in testa certe immagini televisive, l’idea che diventare vecchi sia una cosa di per sé disdicevole, e quindi da nascondere a tutti i costi, da mascherarsi con tutti i mezzi, un lifting, una tintura, una pastiglietta.

Mi ha risposto che sì, che invecchiare gli fa paura. Che solo a vederlo quel documentario ogni volta è una pugnalata. Perché ci si vede male. Perché la vecchiaia è per tutti una cosa difficile di affrontare, e lo è anche per lui. Ma questo non è un buon motivo per nasconderla, negarla, mascherarla, dimenticarla, fare come se non esistesse.

E allora ho pensato che nonostante gli slogan che è facile coniare su di lui, con la sua vittoria sul Monte Bianco a quasi sessant’anni, con il suo fisico smagrito la faccia piena di rughe, Marco Olmo il ribelle è una specie di bomba lanciata dentro l’obbligo di restare giovani e belli. Che con la sua scelta etica di diventare vegetariano, quando venticinque anni fa aveva appena cominciato ad affrontare le gare più estreme, è una bomba contro il sistema che fa degli atleti di punta strumenti troppo malleabili nelle mani di medici e preparatori atletici. Che con il suo rifiuto a correre il Monte Bianco col maltempo – gli animali scendono, perché io devo salire, spiega – è una bomba lanciata contro gli sponsor. Che con il suo dichiararsi non un vincente ma un vinto – perché ha dovuto radere al suolo casa sua e perché sono infinitamente più numerose le volte in cui non arrivi primo di quelle in cui porti a casa la medaglia – con il suo non sorridere mai, così poco consono nel tempo dell’ottimismo, è una bomba più potente e persuasiva di tanti spot di colle per dentiere e assorbenti contro le piccole perdite di urina e cremine miracolose.

(La foto è tratta da questo articolo sulla Stampa, piuttosto interessante)

Figli e tabelline

Leviamoci subito ‘sto macigno: io non ho figli.

Giusto per mettere le mani avanti e anticipare l’obiezione che leggo negli occhi di chi ne ha messi al mondo. Obiezione che nel sollevarsi delle sopracciglia può  interpretarsi pressapoco così:

– ecché vuoi saperne te che NON hai figli?

Essendo però stata  “figlia” da quando sono al mondo, mi permetto la mia su una notiziola che La Stampa di oggi spara in prima, e che di suo starebbe in una riga:

“Compiti a casa, un tribunale canadese li cancella”.

Una riga meritevole però, secondo il quotidiano torinese, di ben due contributi l’un contro l’altro armati.

1) Il primo di Paola Mastrocola, in veste di “prof”, che potete leggere qui e che suona pressapoco come suonano di solito i suoi pezzi:

eh insomma, non sarebbe ora che questi scansafatiche si mettessero a studiare?!

Per inciso, di solito la quello che dice la Mastrocola è musica per le mie orecchie, essendo io poco preparata in pedagogia che non sia d’antan e vagamente torquemadiana (siamo nati per soffrire, no? e allora si cominci alle Elementari, che da piccoli si impara meglio!)

2) Il secondo di Elena Lowenthal, in veste di “mamma”, che trovate qui, e che fa un quadro gustoso dell’impatto devastante che i compiti dei figli hanno sulla vita famigliare. Titolo: “una tortura quotidiana”.

Da entrambi pezzi (più da quello della Lowenthal, ma traspare anche in quello della Mastrocola) si evince che è prassi comune che i genitori facciano i compiti con i figli e che i compiti siano pertanto un problema dei genitori fino ad un età non precisata ma avanzata (dalle tabelline a Foscolo superggiù).

Ora, non è che non me ne fossi accorta prima, avendo orecchiato le abitudini di amiche con prole (amiche soprattutto, gli amici maschi con figli per non sbagliare si occupano d’altro. E d’altronde il Calabresi che di tutta questa dinamica di genere deve essere evidentemente consapevole  non ha mica commissionato i commenti della notizia a uomini, no?).

Ma scriverlo proprio così, papale papale:

I GENITORI FANNO I COMPITI INSIEME AI FIGLI

scriverlo sul giornale, senza metter in dubbio la liceità della pratica, mi lascia perplessa.

A me sembra che i compiti siano – debbano essere – un problema dei soli bambini.

Che gli adulti di casa non debbano entrarci se non in casi di conclamata e drammatica inettitudine del pargolo.

Che se proprio devono entrarci che ci entrino sporadicamente, con un aiutino, una ripetizioncina, un suggerimento, non sostituendosi all’inetto nella risoluzione del problema o nell’ideazione del pensierino.

Che debbano entrarci solo un attimo prima che il pargolo venga bocciato, sperando di salvare il salvabile e perchè la mamma è sempre la mamma e non vogliamo che il pargolo pensi che non ci si prende cura di lui.

Che semmai spetti ai genitori rompere semplicemente le scatole perchè l’inetto si stacchi dalla play statione e li faccia, questi benedetti compiti.

Il lasciare i compiti ai figli mi pare abbia due lati positivi:

1) PER I PARGOLI: impareranno qualcosa DA SOLI, senza appoggiarsi alle figure di riferimento. Non vuol dire farsi i muscoli su qualcosa che è alla loro portata? Non vuol dire CRESCERE, questo?

2) PER I GENITORI: avranno un motivo in meno per lamentarsi.

Però io non ho figli, quindi …

Buon fine settimana a tutti!