Il bello della gita comincia immaginandola

Il mio contributo allo speciale “Gite d’autore” sul quotidiano Il secolo XIX dell’8 aprile 2023.

Se il tempo tiene, a Pasquetta salgo alle Capanne di Marcarolo. Da Ovada si prende per Lerma, poi Mornese ed ecco che sei nel parco. Da Campo Ligure invece si va dritti sulla montagna. E siccome il bello della gita comincia immaginandola, adesso smetto di lavorare al computer e immagino. Sono giorni, questi, di primavera potente, di primule che incendiano il sottobosco, di linfa che, dalle radici, risale il tronco dei castagni a gonfiare nuove foglie e io, per Pasquetta, immagino zaino e scarponcini. Conosco le Capanne, ci vado spesso in questa stagione oppure d’estate, quando il caldo toglie il fiato e invece lassù si respira. Le conosco e quindi immagino preciso. Non solo castagni, non solo mammelloni erbosi buoni per farci merenda, anche orchidee selvatiche: il parco ne ha di magnifiche. E farfalle: il parco ne ha di uniche al mondo. E il Biancone, rapace simbolo dell’area protetta, nell’azzurro di smalto. Immagino tutto questo, e sentieri che ho percorso, puliti, ben segnalati, e la vista dalla cima del monte Tobbio, nostra montagna sacra. Quel che proprio non riesco a immaginare, con un sole così, con l’aria che sa di fiori, è il più grande eccidio di partigiani della storia nazionale.

I fatti: settimana santa del 1944, intorno al monte Tobbio un gigantesco rastrellamento. Uomini e cani, mezzi motorizzati, la cicogna che volteggia a bassa quota segnalando la presenza di ribelli in fuga. Difficile, in questo silenzio di vento e farfalle, immaginare la violenza, la cattura, gli ordini in tedesco, i gruppi di cinque davanti alla grande mitragliatrice manovrata da soldati italiani. Non tedeschi: italiani. Difficile immaginarli, i ragazzi della Benedicta, mentre cadono come mosche, a riempire una fossa comune che presto di mosche si ricopre. Difficile, impossibile. Eppure, ogni volta che salgo alle Capanne, allungo di un niente la strada e un passo al sacrario lo faccio. Mi sforzo di guardarlo in faccia, l’inimmaginabile. 

La vita dove nessuno la vede

“Pioniere” l’hanno intitolata. A Genova una mostra in piazza De Ferrari presenta volti famosi e persone comuni. Il mio contributo per Il secolo XIX (7 marzo 2023).

Risalendo a ritroso il sentiero dell’etimologia, scopro che la parola “pioniere”, francesismo, ha tutto un suo significato di guerra e fatica. Un migliaio di anni fa “pionnier” indicava infatti il fante, il soldato che va a piedi, etimo latino identico all’italiano “pedone”. Anche lui, il pedone delle origini, non un semplice camminatore, ma un uomo in armi e con un compito definito: costruire trincee, ponti e camminamenti, disboscare, sbadilare, tirare su baracche e rifugi aprendo la strada al resto della truppa. Così il vocabolario. Quanto alla parola “pioniera”, il dizionario liquida la questione alla svelta. La cosa non stupisce trattandosi, la femmina, di accidente della sostanza, come direbbero i filosofi antichi: esiste il pioniere, maschile (sostanza), e di certo esisterà da qualche parte anche la femmina, ma è un “di cui”, un caso particolare, abbreviabile infatti in “f. –a”. Pionier-a. E tanto basta.

Veramente non basta, ma via, non mi va di sprecare queste poche righe polemizzando contro l’impostazione maschilista dei vocabolari. Faccenda di cui altre si stanno già occupando più autorevolmente e che, a dirla tutta, poco mi appassiona. Mi appassionano loro, invece, le pioniere. Femminile e plurale.

Mi guardano dalle gigantografie. Sono atlete, ricamatrici, puericultrici, sarte, bottegaie, attiviste che l’archivio Francesco Leoni restituisce alla collettività, al discorso pubblico cioè, nei giorni intorno all’8 marzo. A vederle così tutte insieme, donne famose e donne comuni, ho la sensazione che la piazza di allarghi e si riempia. Operaie, insegnanti, attrici, edicolanti. “Dove eravate finite?” domando. “Dove vi avevano nascoste?” E anche: “Possibile che ci voglia l’8 marzo perché finalmente ci si accorga di voi?”

Le più, in foto sorridono. Ma siccome l’etimologia non mente, dietro i sorrisi, oltre il bianco e nero che le fa eleganti e lontane, avverto il picchiare duro della battaglia.

Battaglia di ieri, certo, ma anche di oggi. La stessa di chi, in questo presente accelerato, assume su di sé quel ruolo pugnace di apripista che, con buona pace dei compilatori di dizionari, sta tanto nella parola “pioniere” quanto nella parola “pioniera”.

È battaglia quando l’astronauta si sente domandare chi si occuperà della prole mentre lei fluttuerà nello spazio, e la stessa domanda mai si rivolgerebbe a un collega maschio. È battaglia quando, ad un traguardo raggiunto, una medaglia, un primato, le donne perdono il cognome e la comunicazione le depotenzia a nome di battesimo. È battaglia ogni volta che scorriamo l’albo d’oro dei principali riconoscimenti scientifici e letterari e l’imbarazzante sproporzione tra maschi e femmine ha la durezza di una rimozione da indagare con gli strumenti della psicanalisi. Un’autentica follia, insomma. Chi si ricorda di Rosalind Franklin che, negli stessi anni delle foto che sto guardando, diede un contributo essenziale alla scoperta del DNA, ma i meriti e il Nobel andarono ai due maschi Watson e Crick?

Aveva talento, Rosalind Franklin. Ce l’hanno tutti i pionieri e le pioniere, e parlando di talenti mi viene in mente la parabola, per me la più dura del Vangelo. Al servo che, invece di farlo fruttare, ha seppellito il suo talento, il padrone pronostica “pianto e stridor di denti”, cioè l’inferno in Terra. Ecco, mi dico, c’è un aspetto dell’essere pioniere, un tratto mite e accogliente che proprio con questa idea di talento ha a che fare.

Per spiegarmi torno al dizionario. Esistono, dice, le “piante pioniere”. Organismi viventi che colonizzano luoghi inabitabili e li trasformano in ambienti ospitali per le altre specie vegetali. Si diffondono dove non cresce nulla, prendono possesso di frane, colate laviche, rocce. S’infiltrano nelle fessure, si aggrappano con forza, resistono al vento, al gelo, combattono e convertono la sabbia in confortevole terriccio, e così dietro di loro cominciano ad arrivare fiori, arbusti, piante d’alto fusto e animali, e perfino l’essere umano. Le piante pioniere allargano lo spazio vitale, insomma, e facendolo per sé lo fanno per tutti. Così vedo queste donne pioniere, di ieri e di oggi. Donne che immaginano vita dove nessuno la vede, oltre gli steccati del patriarcato, e immaginandola per sé la mostrano a tutti. E a tutti parlano, uomini e donne, indicando la strada.  Cerca il tuo talento, dicono, non seppellirlo, abbi il coraggio di metterlo a frutto. Dimentica l’inferno, che qui c’è posto per tutti. Qui si può vivere, tutti, meglio.

Natale non non è una festa facile, ma…

Ho scritto un piccolo contributo per lo speciale che il quotidiano Il secolo XIX ha dedicato al Natale 2022. Potete leggerlo qui di seguito.

Quanto a festività, il 2022 chiude in gloria. Per un fortunato incrocio di calendari, nelle stesse ore in cui i cristiani di tutto il mondo festeggiano Natale e Santo Stefano si celebra quest’anno anche una ricorrenza ebraica molto suggestiva: Chanukkah, o festa delle luci.

Di che si tratti è presto detto. Nel 165 avanti Cristo, in terra d’Israele, un manipolo di ebrei coraggiosi cacciò l’oppressore Antioco Epifane di Siria, riconquistando il tempio. Prima di accogliere di nuovo i fedeli, il luogo doveva però essere riconsacrato. Impresa non banale, visto che, a fare le cose come andavano fatte, bisognava riaccendere la lampada perenne con l’olio più puro, certificato dal Sommo Sacerdote e ricavato dalle prime gocce di spremitura delle olive.

Gli ebrei vittoriosi si trovarono così di fronte a un dilemma: usare il poco olio presente nel tempio, che avrebbe mantenuto accesa la lampada sì e no un giorno, oppure rimandare la consacrazione, e quindi la festa, a quando avessero racimolato una quantità sufficiente di combustibile.  Agirono d’impulso, tanta era la gioia della liberazione, e accesero la lampada col poco che avevano. Poi si misero subito al lavoro per produrre altro olio santo. Il Signore fece allora un grande miracolo: la lampada così alimentata rimase accesa non uno, ma ben otto giorni, lasciando il tempo ai fedeli industriosi di ricostituire le scorte. Ecco perché la festa di Chanukkah dura otto giorni: la prima sera, che quest’anno cadeva il 18 dicembre, si accende il primo lume del candelabro a otto bracci (più uno che fa da “servitore”). La seconda sera, il secondo lume, e così nei giorni seguenti, fino alla luce piena.

Scrivo queste cose da laica, ma tutt’altro che sorda alle ragioni della spiritualità. E scrivo da appassionata di storie, e soprattutto di quelle che arrivano intatte dall’infanzia dell’umanità. Lineari, adamantine, e però malleabili: da poterle impastare col tempo che siamo chiamati a vivere. Che, oggi come ieri, è un presente di guerra, carestia, malattia, ricchezze invereconde, abissali povertà.

Allo stesso modo, e ancora laicamente, mi appassiona la storia del figlio di Dio (nientemeno) che si fa carne di neonato (c’è essere più fragile?) e viene al mondo di notte, al freddo, povero e perseguitato, e per manifestarsi sceglie gli ultimi della Terra. Mi piace il rovesciamento che è l’anima di questo racconto. La potenza suprema che si specchia, e si riconosce, nella suprema debolezza. Mi piace l’idea che, per afferrare una Verità maiuscola, devi ribaltare il punto di vista. Mi piace immensamente il dettaglio che sia un neonato: un essere da accudire, nutrire, scaldare perché, giorno dopo giorno, con pazienza, con cura, possa farsi uomo e salvare il mondo. Mi piace la faccenda del cercare la luce ovunque sia andata a ficcarsi, persino in una stella di passaggio. Così come, di Chanukkah, mi piace che la luce, a cavallo del solstizio, nel momento più buio dell’anno, giorno dopo giorno apra un varco nelle tenebre. La storia di umani armati di fede nel futuro, che si mettono a fabbricare olio per tenere vivo il fuoco. E mi piace mescolarle, queste storie. Sento che c’è qualcosa che travalica non solo i confini confessionali, ma proprio il recinto stesso della religione. Che c’è un sentiero. 

Natale non è una festa facile. Col suo carico di aspettative, non di rado spalanca voragini di sofferenza. Natale quest’anno, poi, è festa complicatissima. Al consueto, umanissimo carico di desideri, all’invincibile bisogno di essere amato che ciascuno porta in petto, aggiungi lo spavento della guerra e della crisi. Del gas che costa e allora meglio spegnere. Dell’elettricità che non ne parliamo e allora metti i led e spera in Dio. Del cibo che non smette di aumentare di prezzo, e il ristorante scordatelo per un po’. Della benzina che lo sappiamo com’è, e allora stai a casa. Più il trauma di un virus che è insieme pestilenza medioevale e fantascienza, e ferita sociale da ricucire.

Dalla notte dei tempi, le storie di Natale e di Chanukkah ci dicono invece che è proprio quando l’oscurità si mostra vittoriosa che bisogna reagire. Che la notte va attraversata con coraggio. Che bisogna immaginare il futuro, e darsi da fare, giorno per giorno, per costruirlo. Nella sua millenaria saggezza, la nostra lingua questa cosa ce la sussurra nelle orecchie da settimane. “E tu? Dove lo fai Natale quest’anno?” Fare Natale. Imperioso complemento oggetto. Avanti, allora: proviamoci. Facciamolo. Facciamolo insieme. 

Il mondo reale di Etian

Questo mio contributo è apparso sul quotidiano Il secolo XIX il 26 maggio 2021.

Lo ammetto, quando sento la notizia penso solo all’unico, piccolo sopravvissuto, Etian Biran. L’enormità della sua solitudine mi toglie il fiato. Il termine “intubato”, che il tg continua a ripetere, mi disturba. In pandemia è come uno sciame di cattivi pensieri, e allora lo scaccio. Provo a concentrarmi sul resto, le vittime, le parole dei soccorritori, la macchina degli accertamenti, ma faccio fatica. Il bambino sta lottando, nella mia testa c’è spazio solo per lui, di lui dobbiamo occuparci, penso. E quando passa la foto della famiglia Biran, i due ragazzi che lo hanno messo al mondo, Etian, e anche il fratellino, chiudo gli occhi. Così giovani, penso, noi che i figli li facciamo tardi oppure mai. Tanta vita mi sgomenta, tanta fiducia nel futuro, e dentro di me ringrazio che, nel pozzo nero di un pietoso sonno farmacologico, Etian quelle immagini non possa vederle.  Che poi chissà, magari sogna, e allora cosa sogna? Ma anche questo pensiero – incerto, angoscioso –  lo scaccio. Voglio solo quiete, anche se indotta, pace per Etian.

Forse per questo, quando alla fine del secondo giorno il portavoce dell’ospedale parla ai giornalisti di accompagnare il bambino in un “cauto risveglio”, il mio primo pensiero è: “No”. Poi correggo il tiro: “Non ancora” mi dico. Ma quando, allora? Quand’è il momento giusto? Il portavoce usa parole da medico, tecnicismi precisi e rassicuranti: “risonanza magnetica”, “tronco encefalico”, “stabilità emodinamica”. Come se dicesse che sono ossa, muscoli e arterie a stabilire che è ora, che il corpo è pronto. “Cautela” aggiunge però. Lo ripete. “Cautela” nel riportare Etian al “mondo reale”. Dice proprio così, “mondo reale”, quasi non fossero veri l’ospedale, l’ossigeno, le medicazioni. I giornalisti incalzano, vogliono un titolo che sintetizzi la situazione e il titolo è “cauto ottimismo”. Ma a me resta in testa solo quel “mondo reale”. La meno tecnica della espressioni. La più feroce. E anche se il bollettino medico è incoraggiante, e anche se Etian, come dice il tg, in ebraico vuol dire “forza”, il mio primo istinto è tenerlo lontano dal mondo reale, Etian, ancora per un po’.

Il fatto è che il mondo reale non risparmia nessuno, neanche i ragazzini, che i lutti poi li portano addosso, a scuola per esempio, ed è lì che ogni tanto incrociano la mia strada. Chi smette di venire a lezione e chi fa di tutto per non tornare mai a casa. Chi passa un anno intero senza sorridere e chi cova rancore monosillabico, rabbioso. Il mondo reale può essere spietato. Per questo desidero pace per Etian, solo un altro po’.

Ma in questo mio discorrere di protezione c’è qualcosa che non mi convince del tutto, perché di un piccolo corpo vivo parliamo, e di vita da vivere. Quante volte l’ho visto succedere? Quante volte ho visto ragazzi trovare la forza di tornare tra i banchi e ragazze ricominciare a parlare e perfino a sorridere? Il mondo reale sarà spietato ma la vita è potente.  

Forse il mio primo istinto – aspettare, aspettare ancora – viene da altro e quelli a cui serve tempo siamo noi. Non tempo: coraggio. Noi adulti. Noi che insegniamo che non si devono dire le bugie e quindi a Etian dovremo dire la verità. Trovare le parole giuste per raccontargli la più nera delle favole. A lui e a tutti i bambini che guardano il tg in questi giorni bui. Noi che abbiamo le risposte, dobbiamo averle, almeno quelle che servono a un bambino di cinque anni, quando l’universo è tutto un “perché”. Anche per questo faremo indagini, apriremo istruttorie, commissioneremo perizie e proveremo a rispondere a tutte le domande. L’avete vista al tg l’espressione determinata del magistrato inquirente? È la stessa nostra. Solo alla domanda più misteriosa e dolente ci toccherà chinare il capo e restare in silenzio: “Perché io? Perché proprio a me?”

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